In un mondo che comunica tanto ma ascolta poco, la relazione d’aiuto trova nell’ascolto autentico la sua colonna portante. Non si tratta solo di “sentire” parole, ma di accogliere profondamente l’altro, anche quando esprime confusione, emozioni difficili o silenzi carichi di senso.
Questo articolo esplora cosa significa davvero ascoltare, come l’ascolto trasformi il percorso di mentoring, coaching o counselling, e quali ostacoli inconsapevoli possano ridurne la qualità. Perché, in fondo, ascoltare è un atto d’amore e responsabilità.
Spesso l’ascolto attivo viene insegnato come tecnica: annuisci, parafrasa, mantieni il contatto visivo. Ma l’ascolto profondo è uno stato interiore: richiede presenza, sospensione del giudizio, e l’intenzione di comprendere l’esperienza soggettiva dell’altro.
Ascolto del contenuto (cosa dice)
Ascolto emotivo (cosa prova mentre lo dice)
Ascolto del non detto (pause, contraddizioni, gesti)
Ascolto empatico (entrare nel mondo dell’altro senza perdercisi)
Nella pratica di un coach, mentore o counsellor, ascoltare bene significa:
Legittimare l’esperienza altrui senza fretta di correggere o interpretare.
Contenere emotivamente l’altro nei momenti di vulnerabilità.
Aprire spazi di consapevolezza solo attraverso il rispecchiamento, senza forzature.
“Quando una persona si sente profondamente ascoltata, non ha più bisogno di gridare.”
— Libera rielaborazione da Carl Rogers
Anche i professionisti dell’aiuto possono cadere in alcune trappole inconsapevoli. Eccone alcune:
La fretta di dare soluzioni può diventare una forma sottile di evitamento dell’emozione che l’altro sta portando.
Pensare “so cosa provi” può portarci a parlare dal nostro punto di vista, non dal suo.
Preparare mentalmente la prossima domanda mentre l’altro parla ci allontana dal suo flusso autentico.
Espressioni come “non devi pensarla così” o “è normale sentirsi tristi” chiudono lo spazio dell’espressione libera.
Non avere fretta di intervenire: il silenzio può portare l’altro a contattare risorse interiori insospettate.
Restituire una parola chiave usata dal cliente o mentee aiuta a far emergere significati profondi.
Preferire domande esplorative aperte, come:
“Cosa ti fa dire così?”
“Cosa succede in te mentre racconti questo?”
“Quale parte di te sente questo più intensamente?”
Imparare a riconoscere anche le risonanze nel proprio corpo: tensioni, emozioni, intuizioni. Il nostro corpo può “sentire” l’altro prima ancora di comprenderlo.
Silvia, 43 anni, mentee in un percorso di mentoring professionale:
“All’inizio avevo paura di non essere capita. Poi il mio mentore ha fatto qualcosa che non mi aspettavo: ha taciuto. Mi ha lasciata parlare, piangere, perdere il filo. Ma nel suo sguardo c’era uno spazio sicuro. Alla fine, non ho avuto bisogno di risposte: avevo già trovato le mie, perché qualcuno mi aveva ascoltato senza interrompermi.”
Questo è il potere dell’ascolto: non “fare” qualcosa all’altro, ma permettere che qualcosa emerga da lui.
In un mondo dove la narrazione dominante è “parla per affermarti”, ascoltare è un atto controcorrente. È una scelta di responsabilità relazionale, ma anche un atto spirituale: c’è qualcosa di sacro nell’incontro fra due esseri umani dove uno si mette da parte per accogliere pienamente l’altro.
È anche una forma di “resistenza etica” contro la superficialità e la standardizzazione emotiva.
Nessuna tecnica, nessun protocollo potrà mai sostituire l’effetto trasformativo di un ascolto autentico.
Nella relazione d’aiuto, questo è lo strumento più semplice e più potente.
Ogni volta che ascolti davvero, diventi il luogo dove l’altro può nascere di nuovo.
Non esiste cambiamento senza ascolto. Non solo ascoltare l’altro, ma anche sé stessi, in modo profondo e non giudicante. L’ascolto attivo è il cuore della comunicazione empatica, ed è uno strumento trasformativo nelle relazioni e nei percorsi di crescita.