Ti sarai forse chiesto, come me, per quale motivo nel mondo occidentale ansia e depressione sembrino fenomeni dilaganti. Ti sarà, forse anche capitato, di andare dal medico, esternare il tuo disagio per la situazione che stai vivendo e vederti allungare un rimedio chimico “solleva umore” o “abbatti ansia”. Un tappo, insomma, per quel che le tue emozioni cercavano di dirti, un modo per ritardare, di un decennio almeno, l’identificazione del tuo proprio cammino personale.
Raramente è veramente necessario passare alle “maniere forti”, allo psicofarmaco.
Il più delle volte, per sedare il malessere, serve viverlo fino in fondo, farlo emergere, ascoltarlo, dialogarci; si tratta di mettersi all’ascolto di quelli che sono i nostri bisogni, i nostri desideri. Quasi per tutti il bisogno è quello di essere visti, di essere riconosciuti, di essere apprezzati, di essere accolti, accettati per quello che siamo, di essere ascoltati.
Se sei depresso o ansioso, non sei né un malato di mente, né una macchina rotta, ma un essere umano che non sta soddisfacendo i suoi bisogni. L’ultima cosa che ti serve è che qualcuno ti dica che devi reagire o che questo momento passerà e con lui se ne andranno anche i tuoi disagi. Per come la vedo io, i disagi emotivi che imperversano in questo momento, sono legati allo stato di separazione che percepiamo e che non ci consente, se non in troppo rari momenti, di entrare in risonanza con gli altri. Ci sentiamo come cellule di un unico organismo che non riescono più a sentirsi parte di quel corpo chiamato genere umano. Tutti connessi, alla rete, ai social, ad associazioni che organizzano continuamente eventi, in cui nessuno entra in relazione vera con nessuno. Siamo in uno stato molto simile a quello della particella nell’acqua Lete.
La scorsa settimana ho visto un corso su un social che insegnava come costruirsi una rete utile al proprio tornaconto, insomma fare una cernita delle persone a noi più “utili” e programmarsi “un caffè” di tanto in tanto con argomenti di conversazione preparati a priori per risultare interessanti e “indurre” una risonanza. Raccomandavano anche, in questa recita, di essere “autentici”. Non vorrei commentare, augurandomi che questo aggiunga un contributo a quel malessere serpeggiante che sto tentando di descrivere.
Cene, eventi, incontri su incontri in cui tutti sprizzano allegria da tutti i pori, in cui tutti mettono in scena la migliore versione di se stessi e poi… dentro… l’inferno impera. Qualcuno a volte si spezza e il malessere diventa visibile. Se vi trovate testimoni di questo crollo avete una buona occasione.
Prendete il vostro amico, amica, collega, parente depresso e portatelo a fare con voi una attività manuale, per esempio l’orto. Fatelo inginocchiare al suolo fategli affondare le mani nella terra e fategli seminare i pomodori. Date loro un incarico che li faccia sentire importanti per qualcuno, che gli dia un senso di appartenenza. Fategli fare qualcosa assieme a voi. Ditegli che quella cosa la affronterete assieme e siate presenti per condividere i suoi pensieri, per aiutare ad indirizzarli in maniera positiva.
Hai in mente quei parenti che non ci sono mai stati nei tuoi momenti peggiori, ma che ti dicono “sai che per le cose impostanti ci sono”? Nel caso non ci aveste mai pensato, le relazioni si costruiscono quando si scambiano momenti in cui la maschera si appoggia al tavolo e ci si mostra nella verità.
Le relazioni si costruiscono, giorno dopo giorno, facendo cose assieme, mostrandosi, appunto, al di là della maschera. Ovviamente, non è che dobbiamo costruirle con tutti, le relazioni significative, parenti o meno, è giusto scegliere chi per noi è nutriente, ma sappiate che se ci mancano queste relazioni significative, ci manca un elemento di collegamento con il nostro corpo globale.
Siamo la società che vive in maggiore solitudine della storia umana. Esistiamo perché i nostri antenati erano molto bravi in una cosa: erano molto bravi a stare in gruppo e a collaborare. In questo modo hanno avuto la meglio su animali più grossi, più feroci, più veloci. Essere comunità collaborative, essere “buon ambiente” è stato sempre il super potere di noi umani. Noi siamo la prima generazione di umani ad aver sfasciato le nostre tribù e ci sentiamo terribilmente male per questo.
Ci serve di cominciare a ricostituire gruppi, ambienti, in cui fare assieme cose di cui si condivida il significato. In questo fare, assieme, svanisce il senso di solitudine e l’idea che la vita non abbia senso e il bene-essere riaffiora.
I disagi che nascono dal modo di vivere oggi competitivo, recitato, spezzato, si curano con la prescrizione sociale. L’esplosione del terzo settore deriva da quel bisogno di un fare, che abbia un senso, con gli altri, ma non riesce a guarire le anime.
Siamo stati creati come membra di un unico corpo, come pezzi di un’unica anima che anela a ricongiungersi e, la frammentazione che viviamo oggi, ci fa sentire di essere in conflitto con lo scopo della Creazione: amarci gli uni gli altri.
Insomma, se senti un nodo alla gola è un buon segno: vuol dire che la tua anima preme per uscire da Matrix.
Pubblicato su Linkedin il 31 ottobre 2019, rivisto agosto 2021